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Startup innovative, perché il bicchiere è mezzo pieno.


Start-up innovative: un settore in fermento, con ancora tanti i nodi da sciogliere. Di Stefano da Empoli e Giusy Massaro - I-Com, Istituto per la Competitività.

Sono anni che si fa un gran parlare di start-up, ed il pubblico è diviso tra ottimisti e pessimisti. La verità sta nel mezzo. È vero, il bicchiere è mezzo pieno. I dati positivi non mancano: negli ultimi anni, e più precisamente dopo l’emanazione della legge 221/2012 che ha introdotto il concetto di start-up innovativa, il numero di start-up è cresciuto in maniera molto sostenuta, raggiungendo un totale di oltre 6.000 realtà a fine 2016, una crescita enorme se si pensa che Infocamere ne registrava solo 70 appena 4 anni prima. Questa crescita è anche il frutto di un’attenzione che non è solo mediatica, ma anche politica. Sono tanti i provvedimenti presi dopo la legge 221, e tanti sono gli strumenti messi a disposizione e volti a favorire la nascita e la crescita dimensionale di nuove imprese innovative. E, in effetti, i feedback positivi non mancano: dati significativi si registrano relativamente alla recente possibilità di costituire una start-up online (circa il 40% ha sfruttato questa possibilità), all’utilizzo del Fondo centrale di garanzia per le PMI, all’utilizzo degli incentivi per gli investimenti in equity sulle start-up o l’equity crowdfunding, così come bene paiono essere state accolte le semplificazioni che consentono alle start-up di costituirsi come Srl ed operare come Spa e l’introduzione dei visti semplificati per chi opera nelle start-up italiane. L’ulteriore incremento avvenuto nel corso dei primi tre trimestri del 2017 fa sì che ad oggi si contino ben 7.835 start-up innovative. Il numero è consistente e la crescita buona. Ma si tratta per lo più di realtà di piccole dimensioni.

E qui veniamo al bicchiere mezzo vuoto. Il 66% ha un valore della produzione inferiore ai 100.000 euro, e il 92% non va comunque oltre i 500.000 euro. Secondo le nostre stime, le quasi 8.000 start-up innovative ad oggi esistenti nel panorama nazionale generano un valore compreso tra 1 e 2,8 miliardi di euro (di questi oltre il 60% prodotto nel Nord Italia). Non si tratta di numeri altissimi in termini relativi, ma sono comunque cifre di tutto rispetto. Qualcosa doveva muoversi, e forse comincia a farlo: se non altro, la volontà di rimettersi in gioco, dopo anni di crisi profonda. Secondo i dati contenuti nel cruscotto di indicatori statistici pubblicato a ottobre 2017 dal Ministero dello Sviluppo Economico, il numero di addetti ha superato per la prima volta le 10.000 unità, raggiungendo un livello di 10.262 (con un incremento di ben il 9,6% rispetto a 6 mesi prima). Un effetto, soprattutto, dell’aumento del numero di start-up con almeno un dipendente (dal 35,2% del marzo 2017 al 39,9% del settembre 2017). Considerati anche i soci (31.400 a fine settembre), sono ormai più di 40.000 i posti di lavoro in gioco. Purtroppo, però, esistere non basta: l’anello debole è nella fase successiva, quando cioè si tratta di crescere. Che peraltro è una condizione propedeutica a un impiego più efficiente dei fattori produttivi. Nell’ultima Relazione annuale al Parlamento del Ministero dello Sviluppo Economico sullo stato di attuazione e sull’impatto delle policy sulle start-up innovative (marzo 2017), si evidenzia (su dati di bilancio 2014) come la produttività del lavoro sia direttamente correlata alla dimensione. Infatti, la produttività mediana del lavoro, pari a 17.000 euro nelle start-up innovative fino a 10 addetti (come abbiamo visto, la stragrande maggioranza), è esattamente il doppio in quelle con più di 10 addetti. La difficoltà principale sulla via della crescita, oltre a quelli che spesso sono evidenti limiti organizzativi, sta nel trovare capitali ed è un vero peccato scoprire che, non appena registrano i primi successi, le start-up tendono ad andare all’estero a raccogliere i capitali necessari. Nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, spariscono, vanificando gli sforzi compiuti e perdendo opportunità importanti per sé stessi e per l’economia nazionale. Il ritardo più evidente che l’Italia sconta in questo momento è, non a caso, proprio con riferimento al Venture Capital. Nel 2015 il volume totale degli investimenti in early stage era pari a circa 130 milioni di euro (contro i 780 milioni di Germania e i 534 milioni di Spagna). Con le misure previste nell’ambito del Piano Industria 4.0, lanciato un anno fa, il MISE si era posto l’obiettivo di accelerare l’innovazione accrescendo gli investimenti privati nell’early stage delle nuove imprese, portando il volume di investimenti early stage a circa 1 miliardo di euro nel 2020, grazie a misure differenziate per le nuove imprese. Al 1° semestre del 2017, tuttavia, gli investimenti in early stage sono cresciuti di appena il 2% rispetto al 2016. Nonostante il segno positivo, la crescita è ben al di sotto delle attese. Il problema vero, tuttavia, è un problema di cultura imprenditoriale: non ci sono, cioè, imprenditori veri che investano su queste nuove realtà innovative, che vadano a cercarle e le utilizzino per fare impresa. E finché questo non accade, il nostro sistema continuerà a far fatica a decollare. Il vero sforzo che viene richiesto alla politica, accanto ai fondi e agli incentivi, è dunque quello di connettere il mondo delle start-up con quello dell’imprenditoria (e delle imprese grandi e medio-grandi). Questo appare al momento il principale nodo da sciogliere. Ma esistono altri ostacoli: uno su tutti è la domanda di innovazione, che nel nostro Paese continua ad arrancare. Focalizzata quasi esclusivamente sul contenimento della spesa e imbrigliata da procedure bizantine, la Pubblica Amministrazione non riesce ad essere come in altri Paesi un driver di innovazione. Eppure, è una tipica situazione dove si potrebbe cogliere due piccioni con una fava, al contempo favorendo il processo di sviluppo delle start-up e aumentando l’efficienza nell’erogazione dei servizi pubblici. Un primo segnale positivo in questo senso è la recente costituzione, in seno all’Agenzia per l’Italia Digitale, di una task force sull’uso dell’Intelligenza Artificiale nei servizi pubblici. Oltre a monitorare e indirizzare, occorre però investire anche qualcosa, una scelta evidentemente lasciata alle singole P.A. che ci auguriamo sia colta. Un caso emblematico è il settore sanitario, dove ci sono spazi enormi per l’e-health e la telemedicina – e altrettanto enormi sarebbero i margini in termini di efficientamento della spesa – ma poco ancora si fa all’interno delle strutture sanitarie. Per questo motivo, I-Com ha lanciato a ottobre un Manifesto per la Sanità “Intelligente”, frutto di un tavolo al quale hanno partecipato esperti e stakeholder del mondo sanitario e digitale. Non c’è dubbio, tuttavia, che spesso e volentieri, come si evidenziava prima, le start-up non hanno una struttura organizzativa adeguata a un percorso di crescita. Mancano spessissimo figure professionali in grado di interloquire e rassicurare eventuali investitori. Sono molto frequenti i casi in cui ci si ferma all’idea o all’invenzione immaginando che bastino queste per far nascere un’iniziativa imprenditoriale di successo. Oppure si è indisponibili a perdere il controllo (parziale o maggioritario). Solo se sia a livello macro che a livello micro saranno superati i fattori che frenano la crescita delle start-up, si potrà parlare tra alcuni anni di un caso di successo. Altrimenti dovremo accontentarci di aver vissuto un’esperienza effimera, utile al più a darci lezioni per il futuro. Una magra consolazione visto il fermento che il settore continua a produrre, almeno a livello mediatico, a 5 anni dall’approvazione della legge che ne ha definito le basi giuridico-normative.

Fonte: www.daonline.info/sito/pagine/dynamic_art.php?id=324&table_name=da2011_n1

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